Facciamo un passo indietro

Una “pestilenza” ha fermato il teatro; per la prima volta da secoli.

Ci saranno moltissimi danni nell’immediato e il governo ha pensato ad un sostegno d’emergenza. Bene, certo.

Se però provassimo ad immaginare che questa sciagura possa “trasformare il veleno in medicina”, la stessa crisi potrebbe volgersi in una straordinaria opportunità per agire immediatamente e ripensare al Teatro di domani, completamente, nella sua ontologia, nella sua struttura. E ad immaginarlo rilanciando con maggiore ambizione, creando qualcosa di meglio di ciò che è stato fino alla fine di febbraio 2020.

Occorre rimettere al centro dell’attività teatrale gli artisti. Tutte quelle donne e uomini che decidono nella propria vita di dedicarsi solo all’arte teatrale, a costo di passarla in moltissimi casi, con difficoltà ormai crescenti e in una continua incertezza; persone sensibili, capaci, creative e a volte fragili, che si espongono sera dopo sera al giudizio di pubblico e critica; persone che vivono solo della bellezza di ciò che sanno realizzare. Con il termine artisti da ora in poi non mi riferirò solo alle attrici e agli attori, ma anche ai tecnici, ai registi, ai drammaturghi, ai cantanti, ai musicisti, a tutti quei collaboratori che possiedono le eccellenti competenze che occorrono in palcoscenico per dar vita all’evento teatrale. In ogni sua forma.

Il palcoscenico è il baricentro esatto del teatro. La ragione per la quale una quota di popolazione si ritrova in un edificio che definiamo Teatro – più o meno ricco, più o meno antico o prestigioso – è quella di presenziare fisicamente ad una funzione laica del proprio bisogno di spiritualità. Il palcoscenico è del resto uno spazio in qualche modo sacro, o più propriamente mistico, dove non tutto è spiegabile, contabilizzabile e regolabile; un luogo nel quale ogni sera può e deve accadere un’azione artistica, unica ed irripetibile, offerta ai convenuti, il pubblico.

Il palcoscenico è il motivo per il quale si è organizzato – negli anni – un sistema complesso nel nostro paese, un sistema di figure professionali che sanno occuparsi molto bene degli aspetti gestionali, finanziari, amministrativi, burocratici, pubblicitari, di biglietteria, di organizzazione ed incremento del pubblico, di accoglienza, di sicurezza, etc…

Negli ultimi 15 anni tuttavia l’asse di questo baricentro ha iniziato pericolosamente a spostarsi decisamente verso gli uffici che gestiscono il palcoscenico, verso il management.

Questo è anche comprensibile: i soldi del F.U.S. stanziati nel 1985 sono rimasti sostanzialmente gli stessi; aumentati e diminuiti di poche decine di milioni, in 35 anni hanno iniziato ovviamente a scarseggiare pericolosamente, fino ad arrivare ai primi anni del nuovo millennio ad essere assolutamente insufficienti. Quindi si sono dovute accorciare le scritture, si sono ridotti i compensi per il personale a scrittura. Si sono tentate riforme ministeriali come quella del 2014 e alcuni seguenti correttivi, ma il risultato è stato ancor più grave; perché i teatri pubblici più grandi sono stati costretti ad una iper-produzione ed hanno dovuto adeguarsi al precetto consumistico “usa e getta”: un mese di prove, tre settimane di repliche e poi si passa ad altro. Questo ha mortificato ancora di più gli artisti e il loro operato, li ha costretti ad una gara al ribasso per realizzare le loro opere. Li ha impoveriti sempre di più, anche e soprattutto nella loro ispirazione. Tutto questo mentre i contratti di lavoro previsti per il personale impiegato negli uffici o in alcuni reparti tecnici, stabilizzati, erano tutelati, nella maggior parte dei casi con assunzioni a tempo indeterminato.

Era un disequilibrio ormai insostenibile. Il punto di non ritorno era ormai superato.

Poi la pandemia, la chiusura di tutte le sale.

La distanza sociale, seppur in questo momento necessaria, è il nemico più temibile dell’Arte dal vivo.

Quella stessa incertezza lavorativa, verso la quale tutti gli artisti avevano sviluppato anticorpi per anni, ha contagiato ora anche moltissimi validi professionisti che lavorano negli uffici. Quindi ora siamo uniti dallo sgomento, dalla paura. Saremo gli ultimi a tornare alla normalità. Questo lo sappiamo.

Ma se dopo la fine di questa catastrofe, pensiamo di tornare in qualsiasi modo allo status quo, non avremo fatto un solo passo avanti per uscire dalla palude in cui eravamo finiti da moltissimi anni.

Cosa possiamo chiedere noi artisti a tutti i livelli istituzionali, alle parti sociali e a chi normalmente viene interpellato ai tavoli di lavoro per affrontare e risolvere la crisi – ormai endemica, storica – del Teatro?

Possiamo chiedere di partecipare.

Se anche per lo spettacolo dal Vivo ci si appoggiasse ad un comitato “tecnico-scientifico” come avviene per il contenimento dell’epidemia, chi si sognerebbe di lasciar fuori da questo tavolo gli artisti?

Se c’è una inconfutabile verità in Teatro è che solo chi lavora in (o attorno al) palcoscenico ha contezza di quel che occorre affinché l’evento teatrale funzioni, coinvolga, valga il prezzo del biglietto e possa coinvolgere sempre più pubblico. Ora forse non sono più necessarie, non bastano più, le trattative tra parti sociali per tirare con forza una coperta troppo corta. Ora – che siamo tutti fermi – occorre lasciare ferma la coperta, mollare la presa e collaborare, nel rispetto di tutti i ruoli, artisti compresi, per ripensare l’intero sistema al più presto.

Occorre appunto fare un passo indietro… e iniziare ad ascoltare chi il Teatro lo realizza.

A seguire proponiamo alcuni punti essenziali per prepararci ad una ripartenza vera, quando questa terribile pandemia sarà passata.

1. Inserimento di artisti attivi nel Consiglio Superiore dello Spettacolo

In relazione al recente organismo formatosi presso il Mibact, ossia il Consiglio Superiore dello Spettacolo, riteniamo sia importante integrare nell’organico altrettanti membri che siano artisti attivi in misura proporzionale ai vari settori, per avviare un rapporto proficuo di scambio e discussione fra gli accademici e il mondo di chi il Teatro lo realizza attivamente.

Se il Consiglio Superiore dello Spettacolo fosse arricchito di esponenti delle varie discipline artistiche afferenti all’arte dal vivo e si potesse tener conto anche delle generazioni più giovani – che possono avere sensibilità nuove e differenti circa la contemporaneità – quest’organo potrebbe essere davvero di vitale importanza per affiancare il legislatore nelle decisioni maggiormente complesse. Essendo figure volontarie il costo di un ampliamento dell’organico del Consiglio superiore dello Spettacolo sarebbe pari a zero.

Se così fosse quest’organo potrebbe costituire un tavolo tecnico-artistico permanente per sostenere il legislatore nella precisione e nella cura dei dettagli attuativi delle norme che saranno stabilite da Governo e Parlamento, insieme ovviamente alle parti sociali e datoriali.

2. Aumento strutturale del F.U.S.

Invitiamo ad esaminare la storia del F.U.S. dal 1985, anno della sua istituzione; la somma stanziata 35 anni fa è rimasta sostanzialmente invariata; questa semplice osservazione dimostra la sua assoluta inadeguatezza nello scorrere del tempo.

I dati più attendibili che descrivono il comparto sono quelli dell’AGIS: 144.000 lavoratori del comparto dello spettacolo dal vivo producono un fatturato annuo medio di 8 miliardi e 200 milioni di euro, che corrispondono circa ad un 0,5% del PIL. Attualmente il FUS equivale ad uno 0,02% di un punto percentuale di PIL: si potrebbe fare un lancio lungo e chiedere poco più di un raddoppio, un aumento strutturale allo 0,05% di un punto percentuale del P.I.L., vincolando però il fondo – senza acrobazie di bilancio – alla sola produzione artistica e/o acquisto di spettacoli a cachet attraverso le strutture teatrali e i circuiti regionali. La parte gestionale delle strutture teatrali, degli uffici, potrebbe andare interamente a carico degli enti locali e delle regioni che sono spesso soci fondatori degli organismi stessi.

Tale aumento sarebbe un investimento pubblico sull’Arte dello Spettacolo dal Vivo, parte consistente delle Attività Culturali, che la Costituzione italiana sostiene agli articoli 9 e 33.

Riteniamo tale aumento del tutto ragionevole e in grado di portare un deciso aumento dell’occupazione degli artisti e della realizzazione di opere teatrali estremamente competitive con il resto dell’Europa; che comunque investe cifre molto più alte nell’ambito dello spettacolo teatrale.

3. Decentramento e circuitazione di spettacoli

Chiediamo di istituire un circuito teatrale di fondazione pubblica per ognuna delle 20 regioni italiane, colmando definitivamente il divario con le regioni che ne sono sprovviste. E implementare i rispettivi fondi – anche ovviamente in relazione al numero di teatri e di abitanti di ciascuna regione –  offrendo un cospiscuo incentivo economico per poter “acquistare” spettacoli da far circuitare nella propria regione.

Esiste poi un’altra azione ad impatto zero sui conti pubblici ossia incentivare maggiormente quei circuiti teatrali regionali che riescono a collaborare con i teatri comunali in modo da accogliere nel proprio territorio le compagnie per una serie di repliche in continuità temporale; vale a dire che se una compagnia entra nel territorio regionale ed ha, poniamo, 6 repliche continuative per poi spostarsi in un’altra regione attigua o vicina, si ottengono importanti risparmi di gasolio ed autostrada per i mezzi di compagnia, somme che non si scaricano sul cachet d’ingaggio ed evitano di inquinare inutilmente il paese. Perfino lo spettacolo dal vivo può e deve essere eco-sostenibile di fronte alla catastrofe climatica che si spalanca sul nostro orizzonte.

La domanda è cosa occorre ad un circuito per organizzare al meglio questo tipo di gestione eco-sostenibile? Dovremmo sentire il parere della associazione dei circuiti regionali italiani che spesso a quanto apprendiamo sono schiacciati dalla volontà politica degli enti locali che desiderano ottenere con le stagioni teatrali un facile consenso. Ecco che nuovamente il Consiglio Superiore dello Spettacolo potrebbe attraverso un sistema ben calibrato di incentivi e disincentivi, spingere i politici locali ad un maggiore crescita del fermento culturale del territorio e ad osare di più.

Il decentramento culturale svolto dalle compagne di giro collega l’Italia che ad oggi, specialmente dopo la riforma del 2014, risulta isolata a livello comunale, nelle grandi città e regionale quando va bene; con una grave distanza tra il nord e il sud del paese. Il risultato di questo modello organizzativo fa in modo che il pubblico del nord non conosca le produzioni artistiche del sud e viceversa.

Vi sono poi alcuni vizi davvero poco comprensibili da parte degli organizzatori delle stagioni teatrali, quali il turn over (lo spettacolo è stato un enorme successo ma non prendiamo mai la stessa compagnia per due stagioni consecutive), la paura del turpiloquio nei testi (nel 2020!) o il timore che uno spettacolo venga replicato qualche giorno prima o dopo in un comune a 20/30 km di distanza (quando si sa bene che il pubblico ama il proprio teatro, anche in quanto edificio e non si capirebbe proprio perché dovrebbe fare tanta strada per boicottare il proprio teatro cittadino, anziché aspettare qualche giorno). Sono fissazioni inconsistenti e pericolose perché aggravano notevolmente il collasso del mercato, soffocato da un’offerta enorme e da una domanda sempre più risicata. Grazie anche ai minori trasferimenti agli enti locali e al patto di stabilità tra comuni.

Non solo ma in Italia, nonostante gli sforzi teoretici, funzionano molto bene solo pochi titoli classici (una decina forse) e salvo rare eccezioni la drammaturgia contemporanea, non solo di questi anni ma addirittura dal dopoguerra in poi, risulta fortemente penalizzata. Occorrerebbe probabilmente sollecitare accordi con le case editrici per sostenere la pubblicazione di testi contemporanei e poi svolgere un grande lavoro – ancora da costruire – per ottenere la fiducia del pubblico e degli organizzatori verso percorsi che possono sembrare rischiosi dal punto di vista degli incassi. Talvolta sono proprio le più fragili imprese private di produzione ad assumersi questi rischi perché essendo dirette da artisti che provano una autentica urgenza nel mettere in scena autori nuovi, si lanciano in imprese davvero pericolose per la loro economia. Queste piccole o micro-imprese vanno assolutamente sostenute di più, dando un giusto merito al rischio culturale che si assumono.

4. Divieto o forte limitazione della pratica dello “scambio”

Gli stessi TN e i TRIC, ma anche i CDP dovrebbero ottenere un aumento di risorse non solo per produrre con maggiore agio e con compensi adeguati ma anche per comprare spettacoli indipendenti e soprattutto evitare la famigerata pratica dello “scambio”, che di fatto offre loro una posizione dominante sul mercato dell’arte teatrale e pone in una posizione di svantaggio le imprese di produzione che non gestiscono sale. Partendo dal presupposto che il mercato d’arte teatrale, così come tutta la filiera culturale, sono un settore primario per la convivenza civile di un paese, possiamo asserire che queste dinamiche di “scambio” violano in maniera aperta le norme anti-trust, recepite dalla legislazione italiana – e tutt’ora vigenti – fin dai primi anni ’90. Le produzioni dei soggetti maggiormente sostenuti con danaro pubblico devono necessariamente essere competitivi e vendere – senza accordi di vantaggio più o meno espliciti – le loro produzioni. Se è ovvio che il libero mercato offre la migliore qualità al miglior costo, questo vale ancor di più per un asset strategico come la crescita culturale di un paese.

5. Correggere i minimi di giornate recitative e contributive richiesti dal MIBACT

Con un mercato asfittico e in continuo peggioramento – ben prima della pandemia – è bene riconsiderare per l’immediato futuro i minimi di giornate recitative e contributive richiesti dal MIBACT per il sostegno pubblico alle imprese di produzione, quantomeno dimezzandoli. In realtà ogni compagnia vorrebbe circuitare e poter replicare il proprio repertorio per mesi interi. Ma in questo momento le 120 o le 90 giornate recitative sono irraggiungibili per chiunque. Chi raggiungeva fino al 2019 – senza “scambiare” (vedere il precedente punto 4) – le soglie dei minimi attualmente in vigore, molto spesso lo faceva con manovre sul filo della correttezza, attivando un vero e proprio “mercato dei bordeaux”. Possiamo ragionevolmente ritenere che non appena il mercato riaprirà, maggiormente sostenuto dal F.U.S., nel giro di qualche stagione le soglie valide fino al 2019 potranno essere raggiunte e superate.

6. Creazione di una ZONA LOW BUDGET per produzioni indipendenti e limitate

Occorre tenere presente che la riforma del 2014 ha creato una sorta di piramide al cui vertice sono attualmente 7 teatri nazionali, seguiti da 19 Teatri di Rilevante Interesse Culturale e poi da 29 Centri di produzione. Al di sotto di queste tre categorie vi sono poi attualmente circa 160 imprese di produzione che percepiscono i più svariati sostegni; che però difficilmente superano i € 300.000.

Appare chiaro che imprese di produzione, altrimenti dette compagnie di giro, – che possiedano o meno una piccola sala teatrale – potrebbero in deroga a quanto fin qui esposto ottenere per ogni progetto che preveda ad esempio molti interpreti scritturati, una sorta di zona franca, una ZONA LOW BUDGET, per produzioni condivise tra artisti che creano veri e propri collettivi.

Probabilmente sotto una linea di sostegno F.U.S. di € 100.000, oppure un volume complessivo di fatturato di € 300.000, si potrebbe richiedere volta per volta ai sindacati, alle parti datoriali più forti e al MIBACT la concessione di una deroga su quanto fin qui esposto o su quanto in vigore da accordi precedenti o successivi; poiché una significativa parte di artisti in questo paese lavora con committenti diversi e spesso alterna lavori per grandi teatri ad autoproduzioni condivise, spesso anche nella costruzione, nella regia, nei costumi, nella scenografia. Pensiamo soprattutto all’energia e alla spontaneità dei più giovani, che va curata e sostenuta offrendo loro una libertà di movimento e di semplice gestione. Se fra di loro fanno perfino qualche “scambio” in sale piccole, non stanno facendo altro che apprendere e crescere di fronte al pubblico, in un mestiere nel quale non si smette mai di imparare.

Chiudo questo accorato appello con una richiesta: chi si sente rappresentato da queste righe le sottoscriva e le divulghi il più possibile. Se saranno condivise da molti artisti ed anche da intere associazioni che già operano da tempo (Facciamo la conta, Cresco… ad esempio), avremo sicuramente qualche possibilità in più di essere ascoltati davvero e di poter collaborare con tutte le parti in causa, offrendo uno sguardo che non parte dalla platea, ma dal fronte opposto: dal palcoscenico.

Noi artisti dobbiamo in questo frangente essere uniti, saggi e allargare le nostre vedute. Occorre però fare presto, muoversi ora, prima della fine di questa crisi; sostenuta comunque da un bilancio d’emergenza.

Per questo faccio appello alle migliori virtù di ogni singolo individuo, al senso di servizio che i migliori desiderano offrire alla collettività, alla dignità e all’onore che derivano dall’assunzione di responsabilità pubbliche. Sono certo che vi sono già oggi donne e uomini capaci di sintetizzare un progetto di riforma articolato, coerente e duraturo.

Infine l’ascolto e la messa in pratica di queste richieste, di semplice ed accurato buon senso, possono essere un atto politico che renderebbe davvero grande onore al Parlamento, alle forze politiche che lo compongono e al Governo a fronte di una responsabilità così piccola in termini economici e così grande in termini culturali, sociali, e produttivi.

Jurij Ferrini